Francesca Cesaroni, psicologa e psicoanalista junghiana, vive e lavora a Roma. Ha insegnato per diversi anni Psicopedagogia alla facoltà di Psichiatria del Policlinico Universitario di Napoli.
Nel 2006 ha lasciato la pratica clinica a favore della ricerca artistica. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive. I suoi lavori sono molto apprezzati da importanti critici ed esperti del settore.
Le mani, i volti e i corpi che nascono dalle mani e dagli occhi di Francesca colpiscono lo spettatore. Non si sa a chi appartengano ma sono allo stesso tempo espressione di una umanità che ci appartiene, di un Io profondo che ha bisogno di uscire e di gridare, con forza silenziosa, la propria disperazione.
Francesca, cosa ha determinato questa scelta professionale e di vita?
La mia scelta è stata determinata da un “Non poter essere diversamente”. Mi spiego. Per me la pratica analitica, nelle sue diverse esplicitazioni, didattiche, cliniche o di ricerca, è stata un percorso altamente formativo sul piano umano, ma nelle sue applicazioni ha rappresentato pur sempre un lavoro, una professione, un “fare”, per quanto appassionante. La scultura, la fotografia, sono apparse nella mia vita quando avevo dieci anni e, viceversa, rappresentano la mia identità. Quando nel corso degli anni, ho capito questa differenza, mi è stato del tutto naturale orientarmi verso ciò che favoriva quello che Jung stesso avrebbe chiamato la mia “individuazione”: cioè diventare ciò che sono. Questo ha a che fare con “l’essere”.
Hai preferito la scultura e la fotografia come modelli comunicativi, pur mantenendo la centralità della tua attenzione sull’Uomo. In un certo senso lo studio è proseguito utilizzando nuovi codici. Come e dove nascono i tuoi lavori?
Sì, il lavoro psicologico non si è mai fermato ma ha trovato nuove vie. Infatti il mio modo di procedere è del tutto immediato, anche nei materiali che utilizzo: le terre crude – che poi possono diventare bronzi – e la fotografia. Sono estremamente veloce nel costruire il lavoro. E le immagini sono del tutto interiori, inconsce. Non uso modelli reali o preesistenti, salvo nelle fotografie in qualità di corpo delle idee. Non ho mai un progetto prima di cominciare. Non sarei in grado di fare disegni preparatori, come altri artisti o di fare copie dal vero. Sarebbe per la mia prospettiva, mortificante, come un artificio. Tutto invece si svolge in modo spontaneo e molto intenso e a volte mi sfinisce. Ma è la fatica letterale di dar forma al mio mondo interno.
Le tue mostre sono apprezzatissime dalla critica e dal pubblico e si prestano a innumerevoli interpretazioni, riuscendo ad emozionare e a far riflettere sulla solitudine esistenziale e sui rapporti umani. Come vivi questo dialogo tra la tua interiorità e il mondo esterno?
Quello che tu osservi è insito nella funzione dell’Arte. E se il mio lavoro riflette questo vuol dire che sto procedendo nella giusta direzione. Ma non posso decidere io. Accade “Deo concedente”. Non ho meriti. Sono solo uno strumento. Lo dico in senso laico. Il mio compito di artista è quello di non tradire mai la mia verità. Di essere autentica. Mi sono sempre fatta una domanda: «Cos’è che decreta ciò che è Arte da ciò che non lo è?» Me lo chiedo in senso filosofico. Non credo sia prosaicamente “il sistema dell’arte”. La mia personale risposta è che tutto ciò che è Arte è in grado di arrivare al centro della persona e creare una risonanza emotiva profonda con chi la osserva. E per questo può contribuire a generare un reale cambiamento in chi ne fa esperienza, nel semplice godimento di quell’opera. E il cambiamento di cui parlo riguarda un aumento del grado di libertà interna nella visione del mondo dell’osservatore. Come in un viaggio. È per questo che l’Arte libera, non soltanto chi la fa, ma per risonanza, anche chi la sa vedere.
La difficile situazione di emergenza sanitaria ha condizionato – e in che modo – il tuo lavoro e la tua arte?
Questo periodo ha provocato in me un sentimento di forte sconcerto e sofferenza legate al dramma collettivo, alla morte, al dolore di molti. Un’ infinita commozione nel vedere tanti sforzi di comprensione e tentativi di dare soluzione al problema, tanta solidarietà, fino al sacrificio della vita, a cui non eravamo abituati. Tutto questo ha certamente condizionato il mio lavoro. È accaduto però un fatto, di cui ho capito qualcosa soltanto a posteriori. Ho cominciato, prima della pandemia a fare delle sculture di terra, molto diverse dai temi che mi sono più intimi. C’era un forte senso di mistero, a cui non riuscivo a dare un senso. Avevo pensato ad un progetto di mostra proprio su questo tema: il Mistero. Poi è successo tutto e le immagini del mio lavoro hanno rivelato parte del loro contenuto. Erano delle prefigurazioni, di ciò che stava per accadere. Jung chiamava questi fenomeni come manifestazioni dell’inconscio collettivo, che non ha in sé le categorie spazio-temporali a cui risponde la nostra coscienza. E spesso nella storia dell’arte l’artista è veggente, profetico e intercetta, senza nessuna intenzionalità, il divenire, anticipandolo. Ho fatto. per la prima volta nella mia vita, esperienza di questo mistero. Anche per questo vorrei dedicare a questo tema una prossima mostra.
I tuoi ultimi lavori dunque, nascono da una sorta di “premonizione” di quanto stesse per accadere. In attesa di vederli esposti in una prossima mostra, quale il messaggio che portano in sé? E cosa rappresentano le grandi mani che coprono gli occhi?
Il messaggio è complesso e questi lavori portano con sé un forte senso di incertezza e di impotenza, uno sconcerto e al tempo stesso una drammaticità evidente. Nella scultura a cui fai riferimento, il cui titolo è Esprit du temps, le mani sugli occhi impediscono all’Uomo di vedere. E senza poter vedere, la realtà si può solo immaginare. Quelle stesse mani, però, non si sa a chi appartengano…
di Madia Mauro | FONTE: Agrpress.it